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Fare l’umano attraverso il teatro. Per una pratica espressiva fondata sui corpi senzienti

Oggi è la nostra festa.

Come artiste e artisti che fanno parte di questa comunità teatrale che è il Comteatro, sappiamo di provenire da percorsi differenti, di avere storie diverse e spesso sguardi ineguali sulle cose del mondo. Ma se dovessimo dire cosa ci accomuna, oltre al fatto di essere compagne e compagni di viaggio, cosa ci lega nel profondo, sarebbe forse questa coscienza che l’incontro con il teatro è stato per noi un passaggio essenziale ed esistenziale. Una rivoluzione mai terminata che ci permette di indagare il nostro umano. Un paradigma per la nostra relazione col mondo. Crediamo che oltre gli stili, i punti di vista, i metodi, i mi piace, rimanga il fatto che quello teatrale è un evento straordinario col quale la comunità umana può interrogarsi e crescere, farsi e rifarsi. 

Per questo motivo, oggi che è la nostra festa, abbiamo deciso di non rimanere sole e soli, ma di chiamare altre voci, alleate e alleati che vengono da ambiti che a volte paiono distanti, ma che condividono con noi l’avventura di chiedersi come si possa fare il mestiere di essere umani. Farci domande con loro, farci domande con noi. Stare insieme. Festeggiare.

Perché oggi è la nostra festa e ci tenevamo a regalarla a tutte e tutti voi.

Per quale motivo facciamo il nostro ingresso in teatro?

La prima spinta, spesso, appare prossima al desiderio di essere viste e visti, ascoltati. Un movimento intuitivo, bambino, reclama l’attenzione del mondo dicendo: guardami. Lascia che il tuo sguardo, poggiato su di me, mi dia diritto d’esistere; che il tuo ascolto dia la possibilità alla mia voce di diventare una voce. Così entriamo sulla scena ed alziamo un braccio, semplicemente, apriamo la bocca, battiamo le palpebre, emettiamo un suono che non è ancora una parola. Ci accorgiamo che tutta la nostra esperienza d’infanzia, le ginocchia sollevate nella corsa, le labbra dischiuse dallo stupore, le dita intente a sfiorare una guancia, continua nel nostro corpo adulto. Ugualmente fanno gli inciampi, le cadute, i pianti non permessi e i gridi trattenuti; gli occhi a volte bloccati a fissare qualcosa di cui non abbiamo memoria. Interruzioni, macerie, geli leggeri, ruggini. Ed anche slanci, battiti d’ali, orizzonti luminosi. Tutta la nostra storia ci appare trascritta e iscritta nell’esperienza fisica, in una biografia della carne che si declina solo ed unicamente al presente, qui ed ora. 

Entriamo quindi spesso sulla scena per mendicare attenzione e ci accorgiamo che lì possiamo medicare il nostro rapporto con il mondo. 

Perché in teatro ci sono le prove. I tentativi. Le ripetizioni. Quelle che, a volte, nella vita non ci sono date. Come si entra in questo spazio? Come si poggia lo sguardo su un altro corpo? Come lo si tocca? Perché non riesco ad avere dita leggere o perché ho sempre paura di fare male? Posso gridare? Perché non credo di avere il permesso di piangere? Se ora scopro il fianco, tu mi azzanni? Siamo tutte e tutti davvero costretti a farci vedere sempre sicuri, affiliati come lance?  In teatro l’attrice, l’attore, osservano il proprio corpo agire, lo ascoltano nel suo lavoro vitale e lo guardano fare esperienze; ne scoprono i limiti sacri che la vita gli ha disegnato addosso e provano non a eliminarli o a reprimerli, ma ad accompagnarli verso la prospettiva di un’espressione più libera. 

I personaggi sembrano essere lì per questo, per offrirci continui e diversi modi di morire, di abbracciarci, di scatenare inferni, fare pace e darci baci. Attraverso la loro proposta il corpo attoriale ri-scopre possibilità che forse non gli erano mai state date, o che sono state dimenticate, sommerse dalla conta dei giorni e dall’abitudine. Diventa altro. 

Le sollecitazioni della scena e le percezioni che ne scaturiscono creano nuove possibilità nel corpo dell’attore e dell’attrice, tracciano strade dove si pensavano deserti, aprono varchi dove si sentivano blocchi e ponti dove c’erano interruzioni; questo regala una dimensione nuova e più ampia alla relazione col mondo dentro di sé e col mondo fuori di sé. Con gli altri corpi che quel mondo abitano. 

Possiamo toccare e posare il nostro sguardo, accorgerci che la voce è un gesto, scegliere con quale passo entrare in uno spazio, riconoscere che il grido o il pianto altrui grida o piange dentro la nostra carne. Avere della nostra presenza e di quella altrui sensazioni che sono afferrabili e ineffabili, che non si limitano all’ambito di quello che so di te, di quello che so dire di te, ma si aprono al mistero concreto della nostra presenza. Del nostro reciproco riconoscerci attraverso la bellezza e il dramma dei nostri corpi. Così limpidamente messi alla vita, così destinati, così spesso dimenticati dal ruminare dei pensieri. 

Entriamo in teatro perché abbiamo l’intuizione di poter fare un gesto più ampio, più libero, e ci accorgiamo che quel gesto naturalmente ci chiede relazione col mondo. Ci accorgiamo che il nostro umano è una prospettiva, non un traguardo raggiunto; che di me posso avere tutte le idee che voglio, posso stringere incrollabili certezze e sfiducie millenarie, ma resto un’esperienza in costruzione. Qualcosa che si continua a fare. In un’azione viva e collettiva che ha bisogno di coltivare la relazione tra me, l’altro e lo spazio che condividiamo.

Possiamo semplicemente pensarci vivi, oppure possiamo accorgerci di esserlo. Percepirlo nella nostra carne, nel nostro respiro e nella carne e nel respiro dei fratelli e delle sorelle che ci stanno accanto. 

Da qui il testo è da intendersi come una piccola conduzione per le spettatrici e gli spettatori. 

Anche adesso, possiamo restare seduti in questa sala, in quest’ora del sabato, ed avere solo pensieri di noi. Pensieri di Io. 

Oppure possiamo fare un respiro. Un respiro più ampio di quello che ci occorre per sopravvivere. Un respiro largo come una mano che carezza la carne dentro di noi. 

Attraverso questo respiro, questo gesto semplice, accorgerci che ci siamo. Che siamo qui, in quest’ora del giorno, sedute e seduti, con le braccia appoggiate alla poltrona e lo sguardo nel buio della sala. Accorgerci che ci batte il cuore. Che abbiamo piedi. Che i pensieri continuano, ma si ficcano dentro questo corpo che c’è, che vive ora. Che l’esperienza è al presente.

Possiamo sbattere le palpebre. Lasciare che gli occhi si spostino nel buio, a destra o a sinistra. Che il collo li segue. Lasciare che gli occhi scoprano il mondo, come se non lo conoscessero. Perché non lo conoscono. E accorgerci che di fianco a noi, poco più in là, condividendo lo stesso spazio, c’è un altro, c’è un altra. Possiamo intuire il ritmo del suo respiro, quasi accordarci. Possiamo appoggiare lo sguardo sulla sua forma, senza dare nomi. Possiamo percepire che qualcosa è comune, tra noi, che siamo nella stessa acqua, a respirare la stessa aria. Che stiamo già facendo qualcosa insieme. 

E da lì, metterci al lavoro.

Testo di Davide del Grosso